Crescita speculativa

Paolo Giussani

L'ampiezza e la durata dell'onda speculativa, tuttora in pieno svolgimento, non ha precedenti nella storia contemporanea. Ben lungi dall'essere una semplice 'bolla', per quanto grande ed inusuale, si tratta dell'alterazione di tutta la fisiologia del sistema economico capitalista in funzione della quotidiana alimentazione del capitale investito speculativamente, vale a dire nella compravendita di titoli, massimamente azionari, con il fine di realizzare le differenze positive di prezzo che continuamente si manifestano in tutto il globo. Praticamente tutto il denaro esistente è oggi in un modo o nell'altro connesso alla speculazione; o perché viene automaticamente immesso nei fondi pensione e nei fondi comuni, o perché viene affidato al private banking, o perché le aziende maggiori del settore produttivo e commerciale lasciano in gestione le liquidità alle proprie sussidiare finanziarie appositamente create affinché le investano speculativamente, in questa o nell'altra forma, il denaro cash sembra sparito per essere inghiottito dal buco nero della finanza: cash is trash! è motto isterico dei nostri tempi, ed il denaro che non venga continuamente riconvertito in titoli neppure sembra più poter avere esistenza.

Ma la storia non è cominciata ieri, bensì più o meno venticinque anni fa, alla metà degli anni '70 nel settore della speculazione sui cambi, per poi estendersi alla borsa verso il principio del decennio successivo. Dal 1980 ad oggi l'indice Standard & Poor's Composite 500 della borsa di New York, che racchiude circa l'85% del mercato azionario, depurato del tasso di inflazione si è accresciuto di circa dieci volte con un aumento medio annuo di quasi il 14%, salito al 25% negli ultimi cinque anni; facendo del tutto vergognare la pur formidabile performance del decennio speculativo per eccellenza nella storia del capitalismo contemporaneo, gli anni '20 che osservarono un incremento medio annuo dei prezzi azionari poco superiore al 12%, fino al grande crash dell'Ottobre 1929. Simultaneamente, il volume annuo del giro d'affari di Wall Street, ossia la somma delle transazioni azionarie annue, è passato in rapporto al Pil americano da una media del 25% nel periodo 1933-1982, a valori di 150%, 220% e 330% per gli ultimi tre anni in ordine cronologico; il che significa che attualmente il turnover annuale di Wall Street ammonta approssimativamente ad una trentina di trilioni di dollari. Pur essendo una parte di questa incredibile grandezza dovuta al notevole accrescimento della velocità degli scambi, la quota largamente preponderante di questo incremento relativo dal 25% al 330% del Pil in circa vent'anni è dovuta all'immissione netta di denaro nel mercato, più o meno stimabile a cinque-sei volte il volume monetario in rapporto al Pil che veniva investito prima degli anni '80.

È più che ovvio che l'investimento di capitale speculativo non contraddice minimamente al principio generale secondo cui la vita del capitale è regolata e dominata totalmente dal suo autoaccrescimento, anzi nella finanza la cosa appare ancor più chiaramente dato che si tratta di meri numeri che aumentano da un giorno o all'altro senza la noiosa intermediazione di alcun tipo di produzione. Ciononostante va tenuto ben presente che l'incremento dei prezzi azionari, espresso nel movimento degli indici sintetici del mercato, non equivale alla realizzazione di un profitto allo stesso titolo in cui la vendita di una merce ad prezzo superiore ai suoi costi di produzione comporta un profitto per il venditore/produttore. In quest'ultimo caso le merci vengono prodotte e vendute in cambio di denaro, dopodiché finiscono nel consumo produttivo o improduttivo dove perdono le loro caratteristiche materiali per diventare qualcos'altro. Il loro prezzo non esiste più, si è trasmesso come parte del prezzo di un'altra merce oppure è stato puramente e semplicemente distrutto, mentre il denaro continua a circolare e a far cambiare di padrone e destinazione le merci prodotte. Nella circolazione del capitale speculativo le cose si muovono diversamente. Le stesse merci, i titoli azionari ad es., continuano a circolare in eterno orbitando intorno al denaro con cui si scambiano, il quale a sua volta fa esattamente la stessa cosa. Fintantoché nel circuito speculativo entra denaro addizionale i prezzi si innalzano generando profitti monetari per le azioni in movimento ossia comprate e vendute e profitti puramente nominali o ideali per tutte quelle azioni che restano nei portafogli senza essere scambiate. Allorché tutte le azioni che formano lo stock di capitale nominale esistente fossero simultaneamente vendute ci si accorgerebbe che i profitti calcolati il giorno prima sulla base dei movimenti precedenti dei prezzi sono puramente nominali e non possono divenire profitti realizzati in denaro. Il motivo per cui il denaro è attratto dall'investimento speculativo risiede nel fatto che i titoli sono merci non riproducibili connesse, direttamente o indirettamente, ad attività ossia a capitali produttivi di profitto, circostanza che appare mettere il denaro investito in grado di operare una funzione all'occorrenza duplice: creare profitto addizionale onde appropriarsene una parte mediante i dividendi e fornire al detentore profitti istantanei sotto forma di accrescimenti di prezzo, i cosiddetti capital gains. Da questo é derivata la teoria che asserisce che i prezzi delle azioni riflettono i rendimenti futuri attesi del capitale produttivo che esse rappresentano, teoria che si riduce ad una vuota banalità in tempi non speculativi ossia allorquando prevale l'emissione di nuove azioni per finanziare nuovi investimenti cioè l'accumulazione (mercato primario), e che è totalmente falsa quando prevale la compravendita di azioni esistenti, il cosiddetto mercato secondario, ed i prezzi mediamente salgono ben oltre i livelli determinati dalla crescita del capitale fisso delle società quotate in borsa.

Le origini

Uno dei maggiori pii desideri del pensatore medio di sinistra, in lui normalmente acceso dall'indignazione verso la speculazione, aberrazione lussuriosa e parassitaria, è l'idea che esista una qualche sorta di opposizione fra speculatori e capitalisti produttivi. L'idea stessa che esistano gli "speculatori" è una delle quasi infinite leggende metropolitane in circolazione, forse messa in giro da qualche buon moralista calvinista amante del duro lavoro manuale. L'emergere del capitale speculativo nella nostra era ha precisamente origine nel settore produttivo, e per essere più precisi nel settore delle grandi corporations del Giappone, il maggior paese industrialista del globo, le quali, ritrovandosi a metà degli anni '70 dotate di surplus liquidi cominciarono a speculare sui cambi delle divise sfruttando la forza crescente dello yen nel nuovo regime di cambi flessibili seguito al crollo di Bretton Woods nonché a prestare soldi a destra e a manca, anche all'estero. Da qui il movimento speculativo si estese alla borsa, suo naturale centro, ed agli Stati Uniti dove gradualmente assunse un'ampiezza ed un momento senza precedenti storici.

Attualmente, le interconnessioni fra capitale speculativo e capitale produttivo sono tali e tante che è impossibile dire quale realmente prevalga. Tutte le maggiori corporations del mondo gestiscono in modo speculativo la propria liquidità, che sovente impiegano per ricomprare dal mercato proprie azioni, considerano alla stregua di profitti gli incrementi di prezzo del proprio stock azionario (non operating income), retribuiscono i propri dipendenti, soprattutto i managers, in misura crescente con options sulle proprie azioni, rimpiazzano gradualmente tecnici e managers di tipo tradizionale con esperti in ingegneria finanziaria, alterano la propria conformazione societaria spezzandosi in vari segmenti per emettere azioni a scopo speculativo. Sono al tempo stesse attratte e costrette a fare tutto ciò dalla tendenza al rialzo della borsa che oltre a promettere guadagni stellari spinge i detentori a disfarsi dei pacchetti azionari per intascare i gains, con la possibile conseguenza della disgregazione completa della stessa unità capitalistica dell'azienda.

Il denaro

I responsabili del grande movimento di ascesa del capitale speculativo sono gli investitori istituzionali, fondi comuni e fondi pensione; fattore che spiega anche la maggior ampiezza del mercato azionario americano rispetto a quello europeo. Confrontati con questi immensi di canali che mettendo insieme i soldi di molti creando un capitale speculativo socializzato, gli investitori privati sono una frazione abbastanza piccola, a sua volta dominata dalla attività delle banche, quindi da altri investitori istituzionali. Questo però non è certo tutto. Una parte consistente, e sempre più consistente del denaro investito speculativamente è costituita da denaro creditizio appositamente creato, movimento che ha subito un vero e proprio boom negli ultimi anni, passando dal 30% del nuovo credito totale creato nel 1985 al 75% del nuovo credito creato oggi. Non sono solo le banche tradizionali (le banche commerciali) a creare questo credito; ad esse si è aggiunta una pletora di istituzioni -Money Market Funds, Government Sponsored Entreprises, etc.- in grado di fare lo stesso lavoro delle banche con più velocità e meno riserve liquide.

All'estensione creditizia ha notevolmente contribuito l'incredibile crescita dei derivatives nell'ultimo decennio, la vera grande novità portata dal trionfo del capitale speculativo, che ne ha innalzato lo stock esistente dal valore di circa 600 miliardi di US$ nel 1986 a 17mila miliardi nel 1999 (+28 volte). Molte ragioni pare avere Nasser Saber per sostenere nel suo interessantissimo Speculative Capital (edizioni Prentice Hall - Financial Times, Londra 1999) che i derivatives sono la forma funzionale del capitale speculativo dato che consentono di fissare il capitale monetario in modo perfettamente adeguato a profittare delle differenza di prezzo che si creano continuamente nelle incessanti oscillazioni del mercato finanziario mondiale. La teoria ufficiale sui derivatives è che essendo un mezzo razionale di assicurazione contro il rischio (risk hedging) la loro crescita sia un indice di rischio generale minore. Teoria naturalmente ridicola se si considera che i derivatives assicurano sì contro il rischio ma solo perché lo spostano su qualcun altro non certo in quanto lo eliminano dalla scena, mentre lo accrescono grandemente in generale rendendo possibile una maggior esposizione debitoria, indicata dal grado di leverage (rapporto fra debito e capitale proprio) che per le maggiori banche americane impegnate nel business di speculare coi derivatives ha ormai toccato il fantascientifico livello di 100 quando un livello superiore ad 1 è considerato insostenibile in qualsivoglia attività produttiva.

Ma, qual è il normale andamento delle cose nella speculazione coi derivatives? I derivatives esistono in un infinito numero di tipi, ma fondamentalmente si suddividono in due grandi categorie: options e forwards. Le options costituiscono il diritto, non l'obbligo, a vendere (put option) oppure a comprare (call option) un certo strumento finanziario ad un determinato prezzo ad una certa data prefissata. I forwards invece costituiscono l'obbligo a comprare o vendere uno strumento finanziarlo ad un certo prezzo per una data stabilita. Tipico uso speculativo delle options è ad esempio quello che consegue al loro pagamento come parte della retribuzione, pratica sempre più in uso fra le corporations americane. Se durante l'intervallo di validità della option per l'acquisto di azioni della propria società il prezzo di queste si accresce rispetto al prezzo indicato sulla option, il dipendente automaticamente eserciterà il suo diritto di acquisizione per rivendere simultaneamente i titoli conseguendo un profitto istantaneo privo di rischio, rischio che viene ovviamente trasmesso alla società medesima che magari non ha i liquidi alla necessità di comprare le azioni e rivenderle sottocosto al dipendente, che ovviamente esercita il suo diritto di acquisto contenuto nella option, per far fronte all'obbligo contratto con la option stessa. Data la piccolezza delle somme coinvolte -il prezzo del derivative è una piccola frazione del prezzo dei titoli- è ovvio come sia facile per l'investitore ottenere credito su options e forwards, somme che possono però ingigantirsi all'istante se il giocatore deve far fronte ad improvvise inversioni del mercato che lo obbligano ad acquisti o vendite immediate che lo vedano in posizione rispettivamente long (dotato) in titoli e short (non dotato) in liquidi o in posizione opposta.

I fondamenti

Ma, essendo alquanto notorio che la borsa può trasferire profitti da un settore all'altro e da un individuo ad un altro ma non certo creare alcun profitto aggiuntivo per l'insieme della società, l'espansione finanziaria degli ultimi vent'anni ha dovuto basarsi su di un accrescimento straordinario dei profitti estorti ai lavoratori salariati, fenomeno che in effetti si manifesta in modo chiarissimo attraverso le statistiche delle contabilità nazionali. Negli Stati Uniti il rapporto fra profitti e salari complessivi nel reddito nazionale si è accresciuto dal 1981 alla fine del 1999 da 0.41 a circa 0.6, un incremento di circa il 50% che annulla praticamente tutto l'avanzamento della quota salariale nei confronti dei profitti nel corso dei trent'anni precedenti -da 0.62 del 1952 ad appunto 0.41 del 1981. Questa diminuzione della quota salariale nel reddito nazionale, causata dal declino dei salari reali e dall'incredibile aumento dell'intensità del processo lavorativo, in queste proporzioni è un fenomeno abbastanza inedito nella storia contemporanea, e vale a spiegare la maggior parte dell'eccezionale aumento del saggio generale del profitto dell'economia americana negli ultimi vent'anni. Il saggio del profitto, misurato come rapporto fra il flusso annuo di profitti lordi e lo stock netto di capitale fisso nonresidenziale investito nel settore privato, si è accresciuto da un valore di 0.08 nel 1981 a 0.15 nel 1999, ossia del 87.5% in 18 anni, variazione che recupera una consistente parte del declino del dopoguerra e che si trova ad essere spiegabile per il 75% mediante il peggioramento della posizione relativa dei salariati e per il restante 25% con l'intensificazione del processo lavorativo che ha consentito l'economizzazione e la maggior spremitura fisica di impianti, strutture e macchinari. Naturalmente, alla netta inversione della tendenza del saggio del profitto non ha minimamente corrisposto il generarsi di una parallela tendenza all'innalzamento del tasso di accumulazione (saggio di aumento dello stock di capitale fisso) ma la prosecuzione del suo inesorabile declino, già iniziatosi negli anni '70 con l'inversione della tendenza all'aumento tipica degli anni del golden age postbellico del capitale, che marca il progressivo venir meno dell'accumulazione di capitale produttivo, sostituita appunto dall'accumulazione in capitale nominale fittizio grazie alla continua inflazione dei suoi prezzi.

È evidente che il valore monetario dello stock di capitale fisso ed il valore monetario dello stock di titoli di proprietà di questo stesso capitale fisso a questo punto non hanno più nessuna corrispondenza, sebbene il capitale non possa ovviamente esistere due volte ed il detentore di azioni altro non sia che il detentore della proporzionale quota di capitale fisso di una determinata società, a tal segno che allorché capiti che tale società fallisca il prezzo delle azioni che costituiscono il suo capitale precipita istantaneamente a zero. Secondo alcune stime lo stock complessivo di capitale nominale contenuto nell'indice Standard & Poor's della borsa di New York vale attualmente circa due volte lo stock complessivo corrispondente di capitale fisso, e quello del molto più piccolo Dow Jones Industrial Average (circa il 21% del mercato) addirittura quattro volte, un'ascesa veramente fantastica dai livelli di approssimativa parità della metà degli anni '70. Visto da un altro punto di osservazione, tale fenomeno si manifesta come un accrescimento stellare del rapporto Price/Earning (P/E) vale a dire del rapporto fra i prezzi delle azioni ed i profitti delle società, salito dal valore di 6.7 del 1980 al valore di 37.2 dell'inizio di quest'anno (indice S&P) che è di 2.6 volte maggiore del valore medio del dopoguerra, pari a circa 14, e che renderebbe necessaria una svalutazione, ossia un crash di circa il 45% della capitalizzazione di Wall Street per riportare il P/E nella sua media cinquantennale. Non da meno è ovviamente stato il rapporto Dividend/Price (D/P), detto anche dividend yield, che designa il corrispondente del saggio del profitto dal punto di vista dell'azionista che punta ad intascare i dividendi ossia una quota dei profitti societari, sceso a livelli più che infimi da 0.05 del 1975 a 0.012 di fine 1999, al punto tale che i dividendi sono ormai diventati una componente praticamente trascurabile dei guadagni complessivi di borsa (capital gains + dividendi) il cui tasso complessivo o totale è dato dalla formula (ÄP+D)/P.

È molto difficile compiere una stima accettabile degli effettivi profitti finanziari degli ultimi vent'anni, ovvero di quei profits upon alienation, come li chiamavano gli economisti classici, riferendosi ai teorici del mercantilismo del xvii secolo, per distinguerli dai profitti realizzati mediante la produzione di merci, che sono risultati dalla definitiva monetizzazione degli incrementi dei valori azionari e che costituiscono la materializzazione del trasferimento di sangue dalle arterie dei lavoratori al Nosferatu speculativo e che hanno in parte sostenuto lo (pseudo)boom dell'economia americana. Una parte di questi profitti monetizzati sono stati reinvestiti nel settore stesso della finanza per acquistare equipaggiamenti (computer ed elettronica telematica varia), approntare uffici, etc.; un'altra quota è finita in salari più alti e premi vari ai managers e funzionari del settore finanziario e non, soldi a loro volta spesi da queste laide canaglie nell'acquisto di beni e servizi di lusso; una terza si è infine composta di maggiori imposte intascate dal governo che se ne è servito per riscattare una consistente parte del debito pubblico, operazione intesa a creare spazio al debito privato per incentivare lo spostamento dell'investimento dai bonds alle azioni. Se noi mettiamo l'uso di questi profits upon alienation assieme all'effetto dei volgari trucchi statistici introdotti dall'amministrazione Clinton a partire dal 1995 per far apparire un accrescimento artificioso del tasso di incremento del Pil e della produttività (prodotto netto per ora di lavoro) otteniamo il 100% della crescita americana degli ultimi cinque anni, nelle quale tutto ha avuto una parte tranne l'accumulazione di capitale.

Il boom Usa

I fanatici dell'informatica e dei videogames non hanno tutti i torti, la realtà di oggi è in effetti sempre più virtuale, e di ciò un esempio veramente istruttivo è dato dal boom dell'economia americana che sarebbe attualmente in corso e che ha dato vita alla ridicola etichetta di New Economy, coniata dal patetico ciarlatano Alan Greenspan per descrivere un'economia capace di crescita elevata noninflazionistica grazie ai fantastici incrementi di produttività generati dalle new technologies e nella quale l'esplosione finanziaria si incarica di distribuire manna dal cielo a tutti coloro i quali siano così coraggiosi da affrontare un minimo rischio.

Ora, analizzando i dati disaggregati ovvero settoriali dell'economia americana nell'ultimo decennio appare che più del 60% della recente crescita del Pil vada assegnato al settore della produzione di computer in cui è impiegato all'incirca il 2% della forza-lavoro salariata del paese. Decisamente, un miracolo assai maggiore di tutti quelli narrati nelle Sacre Scritture! Ma il miracolo non ha avuto luogo nella realtà vera bensì nella sua controparte virtuale ovvero nelle statistiche elaborate dal Bureau of Economics Analysis, ufficio del Department of Commerce dello US Government, da quando il (fino a quel punto) innocente BEA venne opportunamente istruito ad elaborare un nuovo metodo di calcolo del tasso di inflazione che permettesse di ottenere i risultati (virtuali ovvero propagandisticamente) desiderati. Ne sortì fuori il chained method, applicazione dello hedonic price index a sua volta costruzione ideologica generata dalla "teoria" economica neoclassica notoriamente basata sull'apprezzamento soggettivo dell'utilità dei beni. Nel settore dei computer il nuovo metodo non assegnava più all'ora di lavoro il prodotto fisico in unità di bene (1, 2 … n computer) prodotta bensì in unità di computing power che sale a dismisura con l'introduzione di nuovi tipi di processore anche se nell'uso pratico cambia poco o niente. Il risultato fu che nel periodo 1995-1999 il settore computer è stato fatto avanzare ad un tasso medio annuo di incremento di produttività di circa il 42% annuo per un totale di incremento di quasi 6 volte in 5 anni! Mediante questo accorgimento l'inflazione nel settore computer diventava negativa di circa 14 volte nel 1999, ossia il valore corrente in US$ della produzione di computer veniva per magia moltiplicato per 14 onde depurarlo da una inflazione negativa -naturalmente inventata dallo stesso BEA. Non solo l'incremento annuo del Pil si trovava di colpo a balzare da un modesto 1.7% (inferiore a quello tedesco, tanto per capirci) ad un 4% degno del boom postbellico, ma il tendenziale declino della produttività, ovviamente prodotto dal ristagno cronico degli investimenti fissi, veniva di colpo invertito recuperando nell'intervallo 1995-1999 circa l'85% del calo statistico del tasso di aumento della produttività sopravvenuto nel periodo 1972-1995 rispetto all'età aurea 1950-1972. Calo che invece si aggrava ulteriormente se al posto del metodo a catena si continua ad usare il metodo tradizionale fixed price per depurare la crescita del valore monetario della produzione settoriale e complessiva dagli effetti dell'inflazione. Naturalmente, pur impiegando il nuovo metodo gli altri settori industriali, quelli che non producono computer, non sono (ancora) in grado di far apparire crescite maggiori sia della produzione che della produttività, circostanza che rende evidente come la crescita della produttività del settore computer oltre ad essere puramente apparente sia un fenomeno fine a se stesso: fuori dal settore computer non vi è alcuna crescita maggiore, ossia la diffusione dell'impiego dei computer all'interno dei rami produttivi non ha portato ad alcun miglioramento dell'andamento della produttività rispetto ai trend declinanti in vigore da quasi venticinque anni.

In realtà, oltre ad essere in buona parte il risultato di calcoli virtuali, il boom dell'economia americana presenta le seguenti fondamentali caratteristiche, tutte molto bizzarre per poter appartenere ad una autentica espansione economica e completamente opposte a quelle messe in luce durante l'ultimo boom economico effettivamente accertato, quello della prolungata espansione postbellica dal 1947 al 1973, appunto denominata dagli storici il golden age del capitalismo moderno:

1. Tasso di accumulazione ristagnante se non addirittura in tendenziale declino, e parallela esplosione dei consumi di lusso, molti dei quali importati

2. Quota dei risparmi personali sul reddito disponibile in calo verticale, e divenuta negativa negli ultimi due anni (-2% circa nel 1999)

3. Accrescimento consistente dell'indebitamento rispetto al Pil, cresciuto di circa il 60% negli ultimi dieci anni

4. Stagnazione dei salari reali -iniziatasi a meta degli anni '70- ed accrescimento considerevole delle ineguaglianze di reddito nella società

5. Trasformazione degli Stati Uniti da maggior creditore mondiale a maggior debitore mondiale

6. Dopo un grande accrescimento sia del saggio che della massa dei profitti, quest'ultima grandezza ha preso prima a ristagnare per poi calare lievemente negli ultimi tre anni, fenomenologia che fa direttamente a pugni coi supposti eccezionali incrementi di produttività

7. Astraendo dal periodo della grande depressione degli anni '30, conseguimento del record storico delle bancarotte e dei fallimenti, nonché delle mancate restituzioni di crediti bancari

Correggendo le manipolazioni statistiche, il panorama complessivo diviene piuttosto quello di un sistema economico in tendenziale degenerazione parassitaria dove il settore finanziario funziona da sistema di spoliazione sociale per procurare insultanti consumi di lusso alla new gentry, il sistema produttivo viene sfruttato unicamente per produrre tali consumi e la strumentazione utilizzata dalla finanza, mentre tutti gli altri settori vanno più o meno lentamente disfacendosi.

Le ultime notizie

Dopo il periodo di crescita record degli indici borsistici dal 1995, a partire dalla seconda metà del 1998 le cose hanno cominciato a cambiare. Gli indici più ampi come il tradizionale Standard & Poor's 500 ed il Wilshire 5000 (92% del mercato) hanno nettamente ridotto la loro crescita che è simultaneamente divenuta più volatile. Un volume crescente di denaro si è spostato sul Nasdaq che costituisce il segmento più speculativo del mercato racchiudendo tutte le compagnie internet e tutte quelle che semplicemente promettono di produrre qualcosa di tecnologicamente eclatante in futuro (come tutto il settore biotechnology) ma che hanno scarso capitale di partenza e redditi effettivi microscopici, a tal punto che il rapporto P/E per le società quotate nel Nasdaq è salito al valore fantascientifico di 115 all'inizio di quest'anno (tre volte superiore al già elevatissimo rapporto P/E dello S&P). Tutti gli altri indicatori del mercato di Wall Street hanno preso una piega negativa: il rapporto fra numero di azioni che quotidianamente aumentano e calano di prezzo ha cominciato a scendere; il numero di azioni che negli indici maggiori reggono sulle proprie spalle la crescita dell'indice medesimo hanno preso a ridursi, e così il rapporto fra nuovi massimi e nuovi minimi annuali nei prezzi delle azioni. Al tempo stesso lo spostamento di fondi verso i titoli del Nasdaq ha avuto un molto più accentuato carattere creditizio comportando una molto più elevato dose di rischio generale che è in progressiva accumulazione. Negli ultimi tempi l'espansione creditizia speculativa ha a sua volta cominciato a mutare forma giacché pare ora costretta a basarsi su scadenze di rimborso più brevi e su tassi di interesse crescenti essendo ormai esaurita la possibilità di usufruire di tassi decrescenti che durava per moltissimo tempo.

Il segnale teorico della possibilità di un imminente crash è dato dal prodursi di una differenza fra la crescita del credito speculativo ed i guadagni di borsa giacché questa indica che nel futuro le entrate della rivendita di titoli non saranno sufficienti ad annullare l'indebitamento creato. A loro volta, tuttavia, i guadagni di borsa essendo una funzione del volume netto di denaro che entra nel mercato, dipendono dall'estensione del credito: si giunge all'ovvia conclusione che l'estensione del credito al momento t dipende dall'estensione del credito al momento t-1 . Ma l'estensione del credito dipende a sua volta da quanta moneta non creditizia entra nel sistema bancario, e questa è largamente un prodotto non del settore finanziario ma di quello produttivo. La conclusione teorica generale, che possiamo applicare alla dinamica attuale, è che la crescita indisturbata del turnover borsistico dipende in ultima analisi dal volume di profitti effettivi che viene realizzato nel settore non finanziario, che naturalmente non possono crescere esponenzialmente così come la dinamica finanziaria attuale esigerebbe, e che a dire il vero, negli Usa stanno presentemente calando un tantino. Fanno veramente ridere quei sapientoni che per minimizzare l'immane montagna di pericolo sin qui accumulata a mo' di bomba H ad orologeria, dichiarano solerti che la quantità di indebitamento creato è irrilevante perché è coperta dal valore nominale dei titoli in possesso dei debitori. Qualora gli speculatori istituzionali o individuali avessero necessità di realizzare in denaro sonante il valore dei titoli perché stretti dalla scadenze debitorie, i canali di deflusso dalla borsa si intaserebbero subito producendo una subitanea violenta diminuzione del valore nominale dei titoli mentre la quantità di debito cui far fronte rimarrebbe ovviamente inalterata, differenza mortale che farebbe svanire una consistente parte dello stock di denaro creditizio all'interno delle banche, come esattamente accadde nel 1930 dopo il crash dell'anno precedente.