Proletari erranti
note sull’immigrazione a Bologna
L’articolo intende analizzare l’impatto dell’immigrazione di lavoratori italiani ed extra-comunitari nel bacino produttivo Bolognese, evidenziando i cambiamenti che sono avvenuti a livello di sistema produttivo e di mercato del lavoro degli ultimi 10 anni circa, avendo come sfondo anche le conseguenze sul territorio, nello specifico la condizione abitativa e la fruizione della rete di servizi di questa comunità. Le mutazioni nella composizione di classe avvenute della forza lavoro del terziario collegato ai servizi logistici dell’impresa, dell’edilizia, e del bacino industriale bolognese, costituiscono una elemento di discontinuità con il quadro precedente, che era caratterizzato a livello industriale da una forza lavoro prevalentemente autoctona, con un elevato profilo professionale, una spiccata cultura politico-sindacale ed un particolare rapporto di identificazione con il territorio, i servizi ad esso collegati, consolidatosi e sedimentatosi nel tempo. Vista la vastità dell’argomento abbiamo cercato di dare un quadro d’analisi basato sia sulla nostra esperienza soggettiva di lavoratori, sia su fonti statistiche e sociologiche, che su spunti di riflessione politica. La parte storica interessa una parte storica riguardante l’immigrazione di forza lavoro in Italia verso i poli industriali negli anni ’50 e ’60 prima, e l’immigrazione di forza lavoro multinazionale a livello europeo ed a livello mondiale dal secondo dopo guerra ad oggi.
I flussi migratori e la situazione economica emiliana degli anni ‘90
Il differenziale con le altre valute europee creatosi grazie alla svalutazione della lira nel ‘95, il grado di utilizzo degli impianti - del 80% circa - e il massiccio utilizzo degli straordinari - mediamente più di 140 ore al mese secondo le statistiche ufficiali - hanno permesso ad alcuni settori dell’economia emiliana basati prevalentemente sull’esportazione (come quello metalmeccanico, chimico e delle materie plastiche) uno slancio economico senza pari, caratterizzato da un lato da una particolare richiesta di manodopera e dall’altro da un intensivo utilizzo di quella già impiegata, mentre settori quali l’abbigliamento, l’edilizia, l’alimentare ed il terziario restavano ai margini del ‘boom’(1). L’immigrazione interna (ed indirettamente quella estera) verso l’Emilia fu allora incentivata dalla Confindustria che lanciò nell’estate del ’95 l’offerta di 5.000 posti di lavoro disponibili da subito. Tale crescita economica si è poi consolidata, grazie ad elevati tassi di produttività e bassi salari, alla flessibilità degli orari e alla precarietà della forza lavoro, allo sviluppo e la ricerca tecnologica, ad una maggiore razionalizzazione produttiva e finanziaria delle aziende. Questo ha contribuito a cambiare ulteriormente la composizione della classe lavoratrice bolognese, a creare alcune situazioni abitative inedite come le case dormitorio con un bagno per piano dietro la stazione centrale, gli appartamenti dormitorio in via Barbieri, l’occupazione delle abitazioni in via Stalingrado, l’insediamendo di alcune comunità di migranti in alcuni quartieri alla fine di via Corticella, come al Fossolo, alle colate di cemento al Barca ed a Casalecchio di Reno, al popolamento dei paesi dell’Hinterland (2).
A Bologna, come nelle altre città, vi è una stratificazione tra un lavoratore autoctono, un lavoratore del sud, un lavoratore di una comunità di immigrati forte e strutturata (come quella marocchina o tunisina) e un lavoratore di una comunità marginale. Il bacino industriale è abbastanza parificato, escludendo le piccolissime ditte (3), con una precarietà contrattuale che riguarda tutte le fasce, soprattutto giovanili, dell’operaio generico: attualmente sia un lavoratore extra-comunitario, sia un proletario del sud, sia un Bolognese DOC entrano in fabbrica passando per una agenzia di lavoro interinale. Ci sono settori e mansioni più ‘transitori’ per un gruppo e ‘permanenti’ per un altro, con differenze salariali e di condizione lavorativa, si pensi al facchinaggio, alla manovalanza, alle pulizie: solitamente le prime occupazioni dei lavoratori più disagiati e di più recente immigrazione. Il lavoratore autoctono che ha esordito nel mondo del lavoro in un cantiere o sotto un artigiano, come in una piccola ditta, o nella ristorazione, magari ‘al nero’ o con un contratto d’apprendistato o di formazione lavoro, preferisce poi accedere ad una situazione lavorativa più solida sul piano salariale e più tutelata sul piano delle condizioni di lavoro, inoltre se dotato di una diploma e di una situazione familiare abbastanza favorevole, troverà poco appetibili alcune offerte di lavoro di cui conosce o immagina le condizioni e probabilmente per ‘sbancare il lunario’ sarà esposto al fascino indiscreto dell’auto-imprenditorialità, della possibilità di rilevare un esercizio commerciale, di aprire una partita IVA, di intraprendere una attività singola come uniche possibilità di mobilità sociale. Solitamente all’aereoporto come ai magazzini generali i lavoratori del sud passano mentre gli immigrati restano. Nell’edilizia vi è un continuo turn-over di lavoratori della stessa famiglia del sud, come dello stesso paese, che si alternano per un padroncino: sei mesi al paese da disoccupato, sei mesi sui cantieri con straordinari quotidiani, lavoro il Sabato e talvolta di Domenica, con condizioni contrattuali altamente discrezionali, sotto la tutela di un capo-mastro, talvolta pure padrone di casa. Esiste un ‘mercato delle braccia’ nelle primissime ore del mattino in via Stalingrado ed in via Toscana, dove i padroncini arrivano con i camion della ditta per reclutare manovali alla giornata, inoltre vi è un tariffario ‘informale’ per le paghe dei manovali ‘al nero’ delle differenti comunità: un lavoratore italiano prende quanto un lavoratore maghrebino, lavoratori di altre nazionalità prendono più o meno a seconda del potere di queste. Vi sono caporali della stessa nazionalità dei propri dipendenti, a cui rivolgersi per avere braccia, come avviene nell’edilizia, o nelle cooperative composte solo di immigrati, come la Dardo che utilizzava illegalmente personale in produzione alla Felsineo di Zola Predosa, o che gestiscono la prostituzione nelle strade. Mafie che gestiscono la manodopera cinese impiegata in condizioni disumane nei laboratori tessili, come nei ristoranti alla bolognina, ed associazioni che gestiscono la richiesta di domestici filippini.
Il settore impiegatizio pubblico e privato e le libere professioni in genere, sono il vero spartiacque tra lavoratori Italiani e non. Nonostante i livelli di scolarizzazione generalmente elevati di molti lavoratori ‘extra-comunitari’, escluse precise professioni con un accentuato grado di scolarità e qualifica (come quella medica o quella di ingegnere), queste occupazioni risultano ‘inaccessibili’.
Flussi migratori: presente, passato e futuro
La storia dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della formazione degli stati nazione è la storia di flussi migratori continui. Questi flussi possono avvenire da una regione all’altra come all’interno di una particolare area geografica: esempio dal sud Italia e dalle zone ‘depresse del nord’ verso i poli industriali negli anni ’50 e ’60 (4); da una nazione all’altra dello stesso continente: i lavoratori ‘italiani’ immigrati in Francia, Germania, Belgio, Gran Bretagna dalla fine dell’ottocento a fasi alterne fino agli anni ’50 e ’60; da un continente all’altro: i lavoratori di mezza Europa, tra cui irlandesi, tedeschi, italiani, scandinavi, slavi, nonché di alcune zone dell’Asia e dell’Oceania, che dopo l’afflusso di schiavi dell’Africa verso le zone meridionali del Nord-America, sbarcarono in America (5). Attualmente, a livello mondiale la composizione di alcuni settori come l’edilizia, le pulizie domestiche, l’agricoltura, il trasporto marittimo, ed alcuni settori industriali come il tessile o l’alimentare(o per alcune mansioni di questi settori industriali), vede prevalentemente la presenza di forza-lavoro cosmopolita.
Il sistema economico attuale da vita a flussi immigratori ‘a catena’, per cui nei paesi dov’è alta la percentuale di forza lavoro che si reca all’estero per lavoro, vi sono branche del sistema economico con una prevalenza di lavoratori immigrati da altri paesi, soprattutto nelle zone di confine (come nel confine tra Stati Uniti e Messico, Cina e Honk Hong, Germania e Polonia): ad esempio un lavoratore ucraino si reca in Russia per lavorare nei cantieri edili, mentre un lavoratore russo va in Polonia, magari entrandovi formalmente come ‘turista’, per svolgere la stessa mansione che a Mosca viene svolta da un lavoratore ucraino, contemporaneamente un lavoratore polacco si recherà ad ovest per lavorare insieme a lavoratori provenienti da altri paesi, magari di un altri continenti, proprio in un cantiere. Allo stesso tempo, nei paesi del ‘primo mondo’ anche nelle zone economicamente meno floride e con una alta percentuale di disoccupazione, particolari mansioni, proprio come nei paesi in via di sviluppo, vengono svolte da forza lavoro multinazionale, data la natura della mansione, le condizione di lavoro, i livelli retributivi (e quindi i margini di consumo) poco appetibili per un potenziale lavoratore che gode comunque di uno status sociale e giuridico, di una rete di protezione e di relazioni sociali anche minime: si pensi nella nostra regione ai raccoglitori di pesche o di frutta in genere nel cesenate, o ai raccoglitori di pomodori nel piacentino, alla ripulitura delle stive delle navi nel porto di Ravenna, alla siderurgia e alle mansioni di saldatura nel settore industriale, al facchinaggio in genere ed alla manovalanza nell’edilizia. Questo aspetto dei flussi migratori caratterizza tutte le aeree del globo, questi sono determinati dalla richiesta di manodopera da parte di concentrazioni produttive ad alta intensità di lavoro facenti parte di aeree, o settori, con una posizione centrale per l’economia di un data zona, di un paese, o di in una regione, e dal grado di investimento dei capitali locali ed internazionali verso questi poli. Le politiche più o meno restrittive in materia d’immigrazione dei singoli stati, come gli accordi tra differenti governi, non sono in grado di arginare il fenomeno o di contenerlo, semplicemente perché il più delle volte non rientra nei loro fini, e si devono piegare a quelli che sono gli interessi padronali, più che alla propaganda xenofoba di alcune forze politiche. Sono i cicli economici che determinano le scelte politiche, tal volta determinando repentini e rocamboleschi cambi di marcia riguardo alle politiche attive sull’immigrazione, come nel caso della crisi economica di metà anni settanta. Allora i governi europei passarono da una ricerca disperata di lavoratori ad una lotta altrettanto disperata per escluderli, incentivando le partenze di questi, per altro già propensi al rimpatrio viste le mutate condizioni economiche. Certamente solo una parte della forza lavoro di un determinato paese si sposta, solitamente con una condizione nel paese d’origine migliore di quella di altri connazionali, l’esodo massiccio che dipinge orde di stranieri alle porte, tranne nei casi di guerre intestine e operazioni su grande scala di pulizia etnica, è un mito montato ad hoc da media e politici interessati e nei casi sopraindicati in cui avviene è meno traumatico e più ammortizzato di quanto si pensi. Inoltre la nazione di provenienza con cui siamo solitamente portati ad identificare un lavoratore immigrato è una classificazione insufficiente. Questa non tiene conto sia del suo particolare percorso transnazionale: un lavoratore maghrebino può avere lavorato in Spagna e in Francia prima che in Italia, un lavoratore Pakistano può avere lavorato a Parigi presso un negozio di generi alimentari del fratello, avere la ragazza in Pakistan e vivere in Italia. Inoltre tale indicazione non tiene conto della particolare zona d’origine all’interno di quel paese dalla quale proviene, che ne determina spesso la destinazione e l’occupazione: i migliaia di lavoratori del Fujian (regione della Cina sud-orientale) che immigrano irregolarmente negli Stati Uniti, non sono diretti in California, dove si trovano le famose China towns, ma a New York, poiché lì risiede il gruppo più numeroso di immigrati dal Fujian. Non tutte le aeree di un paese sono serbatoi d’immigrazione, e vi sono delle specificità legate alla condizione di partenza ed alla rete di rapporti del lavoratore cosmopolita che determinano fortemente il suo percorso: occupazione precedente, grado di scolarizzazione, situazione familiare (6).
Genesi del razzismo e ruolo dello stato
Gli slogan razzisti che fanno presa sul senso comune sono determinati da una profonda incertezza sul proprio destino economico. Le proprie prospettive di sicurezza sociale trovano nella creazione di un capro espiatorio, nei suoi processi mentali semplici e collaudati, una arma sempre efficace per raccogliere voti e consensi, arricchire l’industria dei vari meccanismi di sicurezza e delle polizie private, delegare sempre più potere alle forze di polizia ed alle soluzioni più inclini alla criminalizzazione preventiva ed alla carcerazione di alcune fasce di proletari, riversando su questi soggetti parte delle nevrosi prodotte dall’organizzazione sociale. <<L’immissione di un virus in un corpo già malato non può che portare ad un peggioramento del martoriato paziente>> sembrano suggerire le analisi di terapeuti sociali al soldo di chi insiste a destra ed a sinistra sull’emergenza immigrazione, il più delle volte utilizzando metafore più crude ed incisive. Inoltre la presenza di minoranze etniche è stato sempre uno strumento di omogeneizzazione, di fortificazione, o di creazione, dell’identità nazionale e di una accessoria ‘invenzione della tradizione’, cioè di una storia piegata del tutto alle esigenze politiche presenti della classe politica, in grado di dare legittimità ad una ‘mitologia culturale’ ed a un corpo burocratico che promuovesse gli interessi della ‘vera nazione’ attraverso processi di espulsione o di integrazione forzata (7). Da questo processo non sono esclusi gli stati d’origine dei lavoratori immigrati, che godono della ricreazione di quel piccolo universo mancante che la famiglia e la comunità di immigrati crea, si agganciano ad una identità culturale che si coagula e si irrigidisce proporzionalmente alle difficoltà incontrate ed al mutare delle circostanze: peggiore è la situazione contingente dell’immigrato e più seducente è il richiamo ad un universo di valori che divengono spesso tali in caso di necessità, che sia l’affermazione dell’autorità patriarcale e della virilità maschile, la professione religiosa, l’identità linguistica, il senso di appartenenza ad una ‘nazione’ in generale. Lo sradicamento e lo spaesamento ambientale, è un buon capitale d’investimento per gli stati mercanti, che speculano su lacerazioni affettive e bisogni di affermazione del tutto negati (8). In ogni modo, quale che sia la politica statale sia dei paesi di origine, sia dei paesi ospitanti, e la posizione pubblica tenuta nei confronti dei propri elettori, l’immigrazione porta consistenti riserve monetarie al paese d’origine e serve come ammortizzatore sociale ai suoi governanti, mentre contribuisce in maniera determinante alla produttività sociale del paese ospitante, cioè ai profitti di padroni e padroncini, con una forza lavoro non concorrenziale, ma complementare a quella autoctona. Il Paese ospite talvolta investe abbondantemente nei paesi da cui proviene parte dell’immigrazione, come nel caso degli investimenti italiani in Tunisia, che costituiscono un terzo degli investimenti esteri in quel paese, o come quelli indirizzati verso gli altri paesi dell’area mediterranea o dei paesi dell’est Polonia e Romania per esempio, allocando le proprie risorse finanziare per ciò che concerne le infrastrutture o l’industria.
L’uccisione in Marzo di un muratore rumeno a Gallarate da parte del suo padroncino, la morte di lavoratori extracomunitari nei cantieri navali nei porti di Livorno, Trieste, Ravenna (9), l’incendio nel centro di ‘accoglienza’ volontariamente occultato dai media durante il periodo natalizio ed il rogo nel campo presso Bologna, già oggetto dell’attenzione della banda dell’uno bianca, in cui sono morti due bambini ROM questo Aprile, i quotidiani suicidi in carcere sono parte integrante dell’accoglienza che la società capitalista riserva ora a questi proletari in Italia, oltre alle battute di dubbio gusto ed alle compiaciute offese razziste..
La condizione storica dell’operaio cosmopolita
La storia della forza-lavoro mondiale è la storia di arrivi più o meno clandestini sotto la tutela di pescecani, che siano gli scafisti che attraversano l’adriatico, i coyotes che fanno attraversare il confine tra USA e Messico, le ‘teste di serpente’ che taglieggiano i proletari cinesi verso Honk Hong, o di apposite agenzie legali a metà tra le agenzie interinali e le agenzie di viaggi. Arrivi in terre poco ospitali, in brutali condizioni di sfruttamento, dove le capacità di adattamento e sopportazione, e quindi di abbrutimento e degradazione, a qualsiasi ambiente lavorativo e non, erano e sono il pegno da pagare per una esistenza il più delle volte segregata, marginalizzata, talvolta combattuta violentemente dal razzismo e dalla xenofobia della stessa forza lavoro magari solo della migrazione precedente, dall’arroganza di capi e padroncini, dalla indisponibilità della burocrazia, dalla precarietà dell’alloggio. È anche da questa condizione che si sono gettate le basi per il riscatto economico e politico della classe operaia nel suo complesso, da essa sono fiorite le forme di organizzazione diretta e le tecniche di lotta per attaccare praticamente sul terreno della produzione e dell’accumulazione capitalistica i padroni, per gestire in prima persona lo scontro con tutti gli strumenti di controllo, recupero e repressione della società capitalista: gerarchie, crumiraggio, polizia tal volta esercito, burocrazia religiosa, statale, sindacale, politica, ed i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa. Nella lotta si sono sviluppate quelle relazioni tra lavoratori che ribaltavano contro il proprio nemico di classe la propria collocazione centrale nella società, da forza-sociale atomizzata e subordinata alla sete di profitto del Capitale, a forza sociale dirompente, utilizzando la lingua e la provenienza geografica come cemento della comunità di lotta o azzerando tendenzialmente le differenze tra differenti comunità di lavoratori (10). Recentemente in Lombardia nell’Hinterland di Milano alcuni lavoratori di una cooperativa che gestiva parte della logistica del magazzino di Esselunga di origine Filippina hanno dato vita ad una lotta frontale con autoriduzione dei ritmi e blocco dei camion, non mediata dal sindacato e sostenuta da un collettivo di compagni italiani di Panetteria Occupata, contro la loro condizione di lavoratori ricattati, flessibili ‘in appalto’ e mal pagati; mentre a Varese, roccaforte della Lega-Nord lo sciopero di solidarietà contro il licenziamento di un autista di autobus di colore ha costretto l’azienda al reintegro di questo lavoratore. Durante la lotta dei portuali di Liverpool di qualche anno fa, i lavoratori ‘cattolici’ Irlandesi del porto, che la mattina pregavano per la buona riuscita della lotta, si trovavano nei picchetti a fianco a fianco dei lavoratori protestanti inglesi, formando una compatta comunità di intenti.
Proletari di tutto il mondo unitevi!
I mutamenti che derivano dalla mobilità geografica della forza lavoro cosmopolita, come dalla mobilità lavorativa della forza lavoro precaria ‘autoctona’, sono aspetti imprescindibili per chi abbia come proprio orizzonte politico la trasformazione radicale dell’ordine sociale esistente e si muova organicamente su di un terreno di classe per la sua unità d’azione.
Alcune porzioni della classe, data la loro collocazione all’interno del ciclo di produzione e nella società nel suo complesso, danno vita quotidianamente a comportamenti micro-conflittuali dettati dalle necessità economiche e da una certa disaffezione nei confronti della propria condizione assolutamente ‘non tutelata’, di cui nessuna organizzazione politica o sindacale si fa veramente carico, senza rosee prospettive future: un lavoro precario, malpagato e usurante, una appartamento in affitto diviso con altri, magari arredato con mobili IKEA e elettrodomestici di seconda mano, un mezzo di trasporto tutt’altro che lussuoso e sportivo, un azzeramento delle chances di ascesi sociale (Lotto e Totogol esclusi).
L’occupazione di case, il mancato pagamento del bus per il tragitto casa-lavoro-casa, il piccolo furto quotidiano sul posto di lavoro, la totale mancanza di attenzione nello svolgere le proprie mansioni (o il proprio e vero sabotaggio) poco prima di una scadenza del contratto, come l’assenteismo programmato come unico modo per fare effettivamente delle ferie pagate per i lavoratori precari, oppure le piccole forme di socializzazione e di solidarietà che soggetti ‘in concorrenza tra loro’ non dovrebbero sviluppare, sono forme di resistenza comuni per le fasce più basse della classe lavoratrice, invisibili per chi non vive tale condizione, non sponsorizzabili da nessuna organizzazione politica o sindacale (11). Certamente queste forme sotterranee sono un sintomo di debolezza fisiologica del conflitto di classe, della mancanza di forme manifeste di lotta. Restano deboli, soprattutto, se questi comportamenti non entrano nel senso comune dei lavoratori come legittimi e generalizzabili. Ma sono comunque l’unico terreno attuale in cui viene praticata l’azione diretta, messa in discussione l’etica del lavoro e la proprietà privata, nonché vissuta una qualche forma embrionale di solidarietà.
Preferiamo quindi dare contenuto a queste manifestazioni di classe e impostare una critica serrata alla condizione proletaria, evidenziando l’attuale esplosiva forza latente dei lavoratori, gli spazi e gli sbocchi in senso comunista che si aprirebbero in caso di una rottura della mistificata pace sociale tra capitale e lavoro (12).
L’efficacia dell’azione intrapresa da noi lavoratori dipenderà dall’intelligenza e dalla forza collettiva che saremo in grado di creare, dalla capacità di rivoltare contro il Capitale le varie barriere che segmentano la classe: da quella contrattuale a quella categoriale, da quella nazionale a quella razziale. Certamente gli aspetti problematici della realtà con cui ci scontriamo, quali le relazioni e le articolazioni internazionali del sistema produttivo e di distribuzione, la concentrazione di capitali, il carattere cosmopolita della forza lavoro, e l’eguale livellamento verso il basso a livello globale delle condizioni di sfruttamento, stimoleranno la capacità di agire e concepirci come una classe.
1) La ripresa produttiva susseguitasi dopo la crisi gravissima del ‘92-’93 è stata determinata da un riallineamento del cambio che ha sfiorato in alcuni giorni il 50% rispetto a dollaro e marco, in un contesto di blocco dei salari nominali e di riduzione di quelli reali attraverso la loro completa deindicizzazione, con un accellerazione nella precarizzazione della forza lavoro e una sostanziale riformulazione del welfare, in via di smantellamento e privatizzazione. Per un quadro economico del periodo: finanza e produzione nel post-fordismo di Renato Strumia in Collegamenti Wobbly per l’organizzazione diretta di classe, nuova serie gennaio-giugno 1995
2) Il canale familiare, quello paesano-comunitario, quello comunitario tout court, oltre a quello di coppia, sono le corsie preferenziali e le risorse primarie per la sistemazione abitativa e lavorativa. Visto il caro-affitti ed il costo della vita complessivo, dividere le spese di gestione di un appartamento diviene un necessità. Nel caso di una famiglia, il congiungimento del coniuge e dei figli è solitamente subordinato al raggiungimento di una situazione stabile come un contratto a tempo indeterminato(e nel caso di lavoratori immigrati è una necessità giuridica), con lo svolgimento di una attività lavorativa di entrambi i coniugi nell’immediato. Per un esposizione più approfondita delle dinamiche del ‘ricatto abitativo’ a Bologna vedi articolo azienda e territorio su Precari-Nati luglio ’99.
3) Uno studio sull’economie locali e l’immigrazione extracomunitaria della metà degli anni ottanta mostra ad esempio come nel reggiano vi sia stato un esodo significativo di operai autoctoni dalle piccole e medie imprese e dalle ditte con le lavorazioni più usuranti e nocive, sostituiti da lavoratori extra-comunitari.
4) I racconti di vita in prima persona raccolti nel volume I tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’autunno caldo alla Fiat, Torino, Cric, 1989 a cura di Gabriele Polo testimoniano i canali, le condizioni abitative e lavorative, i percorsi di alcuni lavoratori divenuti poi avanguardie di lotta immigrati a Torino negli anni sessanta, mentre un documento dell’Assemblea Autonoma Dell’Alfa Romeo di Arese: Ti spremono e ti buttano , Sett. ’74, ricostruisce attraverso la vicenda di Salvatore, personaggio immaginario ma non troppo, l’esperienza di un immigrato a Milano giunto poi a lavorare all’Alfa. Il processo di industrializzazione in Italia nel dopo-guerra, le trasformazioni della metropoli Torinese e Milanese, i mutamenti nella composizione della forza-lavoro, sono al centro dell’analisi e sono il contesto di azione delle esperienze politiche più significative precedenti la stagione di lotte del ‘69-’73. Scriveva Raniero Panzieri a Danilo Montaldi nel settembre del ’59 a proposito di un articolo uscito su <<Rinascita>> rivista teorica del P.C.I:<<L’azione di fabbrica viene identificata con l’azione sindacale per dimostrare la necessità di <<uscire>> dalla fabbrica e l’operaio alienato si recupera <<politicamente>> come cittadino! Ideologicamente, è una non tanto curiosa metamorfosi dello stalinismo in una sottospecie di sociologia dell’integrazione, dove il partito giuoca il ruolo centrale di assorbimento>> in Lettere 1940-1964 di R.Panzieri a cura di Stefano Merli e Lucia Dotti. L’analisi sociale ed la descrizione delle condizioni di lavoro e abitative dei lavoratori immigrati verso i poli industriali, oltre a mettere in evidenza un ritardo di analisi della sinistra ufficiale sindacale e politica, si pongono al di là dell’ipotesi riformista di una integrazione politica e sindacale di questa nuova forza lavoro, evidenziando le contraddizioni esplosive per il comando capitalista in fabbrica e sul territorio, ipotizzando un superamento ed una risoluzione conflittuale attraverso le forme aperte della lotta di classe e della critica pratica e diretta della propria condizione proletaria. La metropoli capitalista funzionava come un’enorme accumulazione di forza-lavoro, con un bassissimo grado di integrazione: un’appendice della fabbrica piena di contraddizioni. Vedi L’immigrazione meridionale a Torino, Goffredo Fofi, Milano, Feltrinelli, Milano 1964; Franco Alasia – Danilo Montaldi, Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Milano, Feltrinelli, 1960;Classe Operaia Reprint completo 1964-67, Milano, Machina Libri, 1979.
5) Particolare attenzione va posta ai periodi di preparazione e svolgimento dei conflitto bellico, specialmente nella prima e nel seconda guerra mondiale. Sia lo spostamento degli eserciti, formato da proletari, sia lo spostamento di popolazioni, sia il lavoro forzato nelle retrovie, sono fenomeni significativi di mobilità della manodopera. Questi processi vedono l’impiego accresciuto di manodopera ‘straniera’ sia concentrata nei siti produttivi, sia arruolata nelle proprie file, come nel caso delle colonie degli imperi europei, sia espulsa per fini economico-politici (quindi utilizzata come ‘ammortizzatore sociale’ interno nei confronti del ceto medio) dai confini nazionali.
6) Per una ottima informazione analitica e interpretativa a livello mondiale dei flussi migratori attuali: I nuovi intoccabili, perché abbiamo bisogno degli immigrati, Nigel Harris, Il Saggiatore, Milano 2000.
7) Le centrali sindacali mondiali sono state storicamente propense allo sciovinismo più becero ed alla discriminazione razziale, cioè alla lotta interna, nel caso di processi di ristrutturazione produttiva e di crisi, o esterna, nel caso di conflitti bellici o di accordi che non salvaguardassero la classe lavoratrice nazionale, a porzioni della classe lavoratrice multinazionale ed internazionale. Durante la prima guerra mondiale i sindacati, come la maggioranza dei partiti socialisti dell’epoca entrano a far parte dell’organizzazione del conflitto sia partecipando direttamente ai governi di guerra, sia contribuendo alla gestione dell’economia di guerra ed alla militarizzazione del sistema produttivo.
8) Sugli aspetti più finemente umani dovuti allo sradicamento sono interessanti i saggi di tahar Ben Jelloun rispetto alla migrazione maghrebina in Francia: L’estrema solitudine, Bompiani, ‘99 L’ospitalità francese, Editori Riuniti, giugno ’98.
9) Per un ottima inchiesta sulla comparto cantieristico e la sua forza-lavoro in Italia ed in particolare sulla Fincantieri di Mestre vedi: Navi da crociera in zona di guerra di G.Merotto, D.Sachetto, V.Zanin su Altreragioni. Saggi e documenti n.9
10) I lavoratori maghrebini nel settore automobilistico in Francia negli atti ’70 e ’80, i lavoratori Turchi nel settore automobilistico degli anni ’70 in Germania sono stati i soggetti più attivi nell’organizzazione delle lotte. Vedi L’operaio multinazionale in Europa, a cura di Alessandro Serafini, Feltrinelli, Milano, 1974 In Italia, la fabbrica, dopo il ’68 studentesco, diventa l’epicentro di un terremoto sociale che scardina violentemente dall’interno il comando capitalista per riversarsi con la sua forza tellurica all’esterno (il quartire e la scuola), con il sindacato scavalcato e costretto a seguire, l’azione dei lavoratori. La fabbrica diventa terreno di socializzazione e di organizzazione diretta di classe, di formazione di organismi indipendenti di lotta, la militanza politica nei gruppi spazio di auto-formazione e apprendimento, la vita quotidiana acquista senso con la lotta e la voglia di gridare rompe l’unica musica che il padrone è in grado di sentire: il silenzio delle macchine ferme!
11) La socializzazione sul posto di lavoro, come sull’autobus nel tragitto casa-lavoro-casa è uno dei canali più importanti di comunicazione tra lavoratori autoctoni, immigrati dal sud ed extra-comunitari, serve alla comprensione reciproca della propria condizione, del proprio percorso individuale e collettivo, diventa terreno unificante per sfumare le differenze. Operaie di una certa età e lavoratori maghrebini che insegnano la propria lingua e apprendono quella altrui, lavoratori extra-comunitari che invitano o organizzano insieme a giovani operai feste tipiche, sono alcuni aspetti di questa embrionale socializzazione…
12) L’attuale ipotesi neo-socialdemocratica con tutte le sue varie sfumature, punta a restaurare un patto sociale tra cittadini ‘vecchi’ e ‘nuovi’ ed istituzioni rese più democratiche, partecipative e trasparenti, sostanziando questo sodalizio tra gli esclusi e le migliorate forme di governo della società da una ridistribuzione della ricchezza e da un welfare più equo, magari in parte autogestito. Questa ipotesi tutta interna da una logica parlamentare, necessiterebbe sia di margini di ‘riformabilità’ che il Capitale per necessità di sopravvivenza, dato il suo funzionamento, non può concedere e di una forte pressione della classe lavoratrice per una radicale inversione di rotta, spinta che se ci fosse vedrebbe un scontro frontale ed uno antagonismo radicale degli interessi in campo: un conflitto che farebbe saltare i ben oliati ingranaggi dello sfruttamento e le sue democratiche forme di controllo, piuttosto che legittimare un sistema già ora marcio fino al midollo. Inoltre pensiamo che sia inutile, se non nocivo, dal punto di vista politico enfatizzare i legami della comunità di origine, cristallizzare tradizioni, cementare identità culturali che non abbiano come propria base portante e denominatore comune l’appartenenza ad un classe proletaria mondiale e come fine la sua emancipazione dalla chiesa, dallo stato, dal capitale.